Mettere al lavoro il lavoro

È possibile apprendere dall’esperienza?

di Marcello Musio

 

Siamo sottoposti e sottoponiamo il mondo ad una costante sollecitazione. Istante dopo istante accumuliamo e produciamo informazioni, sia sul nostro comportamento, sia su tutto ciò che ci circonda, continuamente cerchiamo di decodificare, consapevolmente e non, la “grammatica della vita”, i codici attraverso cui si esprime.

Di tutto questo sforzo cosa riusciamo a farci?

Restringendo il campo al lavoro, nelle sue molteplici forme e manifestazioni, è innegabile che si manifesti una specifica molto importante di questo tema generale per l’umanità: l’esperienza, che diviene quindi l’oggetto della nostra osservazione; richiesta nei colloqui di assunzione, riconosciuta nei rapporti con i colleghi, che sia mancante o sovrabbondante, che sia vissuta come opportunità e, a volte, come intralcio, ostacolo.

Cerchiamo di inoltrarci in alcune ipotesi di approfondimento.

L’esperienza è una conoscenza diretta acquisita con l’osservazione e/o la pratica, di una determinata sfera della realtà; così Treccani ci aiuta a definire una parte della questione, ora cercheremo di definire una piccola particella di ciò che tentiamo di fare quotidianamente: apprendere da essa.

Personalmente non credo ad approcci deterministi, come assoluti capaci di risolvere quello che in più di una manifestazione si dimostra dinamico e in continua trasformazione; quindi, non mi sento di imboccare questa strada per affrontare la questione, bensì proverei a gettare uno sguardo sui luoghi che possono determinare un apprendimento in questo ambito.

Questi luoghi, che non comprendono solo alcuni spazi formativi o consulenziali disegnati per facilitarlo, sono disseminati in maniera formale ed informale in tutti i posti di lavoro, dallo studio professionale, alla scuola, dal laboratorio artigianale alla fabbrica.

Una questione molto rilevante risiede nel tema da cui scaturisce il titolo di questo articolo; mettere al lavoro il lavoro, e cioè con quale approccio quotidianamente “abitare” il lavoro, svolgere il “compito primario” a cui siamo dedicati nel “tempo” in cui siamo impegnati formalmente ad affrontarlo, nel “luogo” dove questo si svolge.

Compito, tempo e territorio, i tre contenitori dentro i quali la vita professionale accade. Spesso però mi chiedo quanto spazio abbiamo per riflettere sull’approccio con cui abitiamo questi luoghi per fare manutenzione di uno dei luoghi del vivere dove ancora passiamo gran parte del nostro tempo di vita, spesso per molti in condizioni non ancora degne e con diritti sempre più messi sotto scacco. In cantiere “la scuola” è sempre stata quella di rubare con gli occhi da chi le cose le sapeva fare, ponendosi in un atteggiamento di apprendimento, come a scuola bisognava saper copiare, come a teatro uno dei lavori fondamentali è quello della mimesi, ma ciò che caratterizza tutto questo non è la tecnica, bensì l’approccio e l’etica che lo guida, il come ci caliamo e poniamo nell’osservazione e nella pratica che ci può offrire una opportunità di apprendimento dall’esperienza, che può dare l’abbrivio all’applicazione di metodi e tecniche creando il campo dove possano attecchire.

L’approccio quindi come luogo dinamico, poroso e aperto, dove esercitare le proprie opportunità di manovra e attenuare “l’idolatria” della tecnica e la sua illusoria capacità risolutiva, l’approccio quindi come questione centrale per mettere al lavoro il lavoro e generare un’opportunità di apprendimento costante, senza soluzione di continuità, dove ogni giorno, ogni istante ricominciare d’accapo e riconoscersi come apprendisti.

Mi chiedo cosa ne pensiate di questo abbrivio.

foto: Suzana Zlatkovic