I Dettagli che Cambiano il Mondo:
Tra Creatività e Concretezza nel Viaggio di Simona Sinesi
Con Simona ci siamo incontrate a Villa Borghese. Abbiamo deciso di vederci in questo angolo incantato nel cuore di Roma, dove arte, natura e storia si sono fuse in un equilibrio quasi perfetto.
La mia preoccupazione è stata quella di non riuscire a ritagliarci la necessaria calma e intimità per la nostra intervista. Ma Villa Borghese ha saputo accoglierci con la sua straordinaria capacità di armonizzare situazioni e persone diverse, mescolandole con una disarmante e vivida naturalezza.
In quel momento, però, non potevo ancora immaginare che la storia di Simona si sarebbe adagiata perfettamente in questa cornice.
Simona Sinesi è fondatrice, vicepresidente e responsabile della comunicazione e dello sviluppo della onlus Never Give Up, che si occupa di aiutare ragazze e ragazzi con difficoltà legate al cibo, al peso e all’immagine corporea, supportandoli nell’abbattere le barriere che spesso impediscono di chiedere aiuto.
Never Give Up è inserita nella mappa nazionale delle strutture e associazioni dedicate ai Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, realizzata dal Ministero della Salute e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Simona è puntualissima e si presenta con una stretta di mano decisa. Come spesso accade durante i miei incontri, anche questa volta è lei a rivolgermi molte domande per capire meglio di cosa si tratti. Le spiego come si svolgerà l’intervista e poi la rassicuro: è semplicemente una conversazione tra due persone, nulla di più.
E così, come sempre, anche questo racconto comincia con: “C’era una volta…”
Simona inizia: “C’era una volta una persona profondamente appassionata di tutto ciò che riguarda il marketing e lo sviluppo di strategie per grandi brand. Già tra il 1999 e il 2000, appena laureata in Economia, intraprendo un’esperienza Erasmus a Dublino, per poi entrare subito dopo in importanti multinazionali. Il mio sogno era lavorare nel marketing di grandi imprese, con brand riconosciuti a livello internazionale.”
Mentre Simona elenca il suo infinito curriculum, la mia attenzione si concentra sulla sua ultima posizione in una grande multinazionale, dove ha guidato un’area composta da 23 Paesi, in cui si parlavano 22 lingue diverse, all’interno della regione più eterogenea d’Europa, dalla Polonia alla Grecia.
“In questo contesto,” racconta Simona, “l’Italia rivestiva un ruolo chiave, fungendo da playmaker in una squadra multiculturale. Ma la sfida più stimolante per me è stata proprio la gestione delle differenze culturali, un aspetto che ho sempre trovato particolarmente affascinante.
Nell’ultimo periodo del mio lavoro presso questa azienda, mi sono occupata di campagne di cosiddetta leadership culturale, ovvero iniziative che non miravano soltanto a promuovere il prodotto, ma a posizionare il brand in un’arena competitiva, in cui il vero valore distintivo risiedeva nella sua capacità di ispirare. L’obiettivo non era semplicemente vendere, ma cambiare la percezione delle persone su determinati temi. In questo contesto, ho lavorato su quelli che vengono definiti i grandi pilastri della comunicazione; in particolare, mi occupavo della promozione dei Mondiali di calcio, di cui l’azienda per cui lavoravo era sponsor ufficiale.
Il mio lavoro consisteva nella ricerca di storie autentiche, capaci di dimostrare come il calcio possa unire le persone. Durante questo percorso, ho scoperto una storia straordinaria avvenuta a Sarajevo durante la guerra nell’ex Jugoslavia: una scuola di calcio che riuniva ragazzi di nazionalità diverse in un momento di grande divisione. Un aspetto incredibile di questa vicenda era il fatto che, quando i bambini attraversavano il famoso ponte di Sarajevo per recarsi agli allenamenti, le granate cessavano di cadere. Si diceva che, in quei momenti, persino la guerra si fermasse per lasciarli passare. La figura chiave di questa storia era l’allenatore, che lavorava con un team veramente multiculturale di giovani. Questa vicenda mi ha colpita profondamente e ho deciso di proporre al mio team di raccontarla attraverso una grande campagna di comunicazione.
Nel corso di questo progetto, ho avuto l’opportunità di collaborare con Danis Tanović, regista premio Oscar per No Man’s Land. Questo incontro mi ha avvicinata al mondo delle storie di impatto sociale, facendomi comprendere quanto fosse importante raccontare vicende capaci di lasciare un segno.”
Il racconto di Simona ha il potere di riportarmi nelle mie terre, tra le crepe di una memoria ancora viva. Mi riporta a quelle ore cariche di dolore e di inspiegabile violenza, ricordandomi quanto sia stato vitale il gesto di chi ha curato, accolto, raccontato. Umanitari, testimoni, artisti: anime diverse, unite dal coraggio di attraversare l’indicibile e restituircelo in forma di memoria condivisa.
Ma Simona corre con il suo racconto; ormai è già negli Stati Uniti, perché è lì che ha trovato i semi di quello che oggi è la sua impresa, Never Give Up.
“Alcuni anni dopo,” continua Simona, “nel 2014, un viaggio a Washington ha segnato un nuovo punto di svolta nel mio percorso. Mia sorella lavorava in un’equipe multidisciplinare specializzata nella cura dei disturbi alimentari presso uno dei principali ospedali pediatrici americani. Qui ho scoperto un approccio innovativo che prevedeva l’osservazione dell’interazione tra madre e bambino fin dall’età dell’allattamento, per aiutare le famiglie a sviluppare fattori protettivi contro l’insorgenza di questi disturbi. Questa esperienza mi ha spinta a riflettere su come avrei potuto trasformare le mie competenze, la mia rete e la mia esperienza professionale in qualcosa che avesse un impatto concreto nella prevenzione e nel supporto alle famiglie.
Mi resi subito conto di quanto il fenomeno fosse diffuso negli Stati Uniti. Tornata in Italia, iniziai a cercare dati sulla situazione nel nostro paese e ciò che scoprii fu allarmante: l’anoressia e la bulimia rappresentavano la prima causa di morte per malattia tra i 12 e i 25 anni. Inoltre, solo il 10% di chi ha bisogno di aiuto riesce a chiederlo, e impiega in media tre anni prima di farlo. Questi dati mi colpirono profondamente e mi spinsero a cercare un modo per cambiare la narrativa intorno ai disturbi alimentari. Fu così che mi imbattei nell’esperienza di fondazione di Never Give Up, ormai nata più di dieci anni fa. Il mio sogno era quello di creare un mondo in cui chi soffre di disturbi alimentari non debba lottare per chiedere aiuto e in cui esistano strutture pronte a supportarli.
Never Give Up nacque proprio da questa convinzione: la possibilità di cambiare la percezione del problema, da un lato lavorando con le istituzioni per modificare il modo in cui se ne parla e, dall’altro, costruendo strutture adeguate, sviluppate in collaborazione con enti pubblici e privati in grado di finanziarle.”
Faccio fatica a interrompere Simona perché non voglio perdermi nulla, nessun dettaglio. Quando parla delle sue esperienze in contesti multiculturali, mi vengono in mente immagini ricche di colori e suoni diversi, un mosaico di culture e melodie che cambiano da paese a paese. Il suo racconto mi risveglia una moltitudine di sensazioni, così alla fine le chiedo: “Quali suoni e colori accompagnano questo viaggio per te?”
Simona sorride e risponde: “Più che una singola melodia, il mio percorso è stato scandito da un’alternanza di ritmi, come una sinfonia in continua evoluzione. L’opportunità di lavorare con cosi tanti paesi, mi ha permesso di sviluppare una maggiore sensibilità verso la diversità e di coglierne le molteplici sfumature. Come puoi immaginare, le dinamiche nelle video call erano estremamente varie: il modo in cui un polacco esprime il dissenso è molto diverso da quello di un greco, così come cambia il modo di dare feedback positivi a una presentazione.
La gestione di un team così complesso, non solo per la distanza fisica, ma anche per le diverse modalità di comunicazione e interazione, è stata un’esperienza che mi ha aperto molte prospettive. Questo continuo confronto ha rafforzato in me l’empatia, una qualità che ancora oggi porto con me in ogni ambito della mia vita e del mio lavoro. ”
Ho immaginato queste persone provenienti da ogni parte del mondo e, attraverso il filtro della mia intervista, le ho visualizzate come una vera e propria opera d’arte. Era come se il racconto di Simona fosse stato disegnato, cantato e danzato allo stesso tempo, racchiuso in un’unica, straordinaria rappresentazione. Ti viene in mente un quadro che possa racchiudere questo mosaico di presenze?
“Sicuramente un’opera dai colori intensi, ma al tempo stesso caratterizzata da una grande delicatezza nei tratti.”
Se dovessi rappresentare visivamente questo viaggio e mostrarlo in una galleria, cosa ti aspetteresti che la gente vedesse?
“Vorrei che trasmettesse l’idea di una diversità culturale espressa attraverso tinte forti e contrastanti, che riflettono il mio stesso modo di vivere e percepire il mondo. Anche nei dettagli della mia quotidianità, come negli accessori che scelgo, emerge questa sintesi: ad esempio, questa sciarpa, così vivace e colorata, rappresenta quel tocco di luce che si inserisce nel mio abbigliamento prevalentemente scuro.
Se dovessi associare questo quadro a un artista, sceglierei sicuramente Edward Hopper, perché nelle sue opere si percepisce un forte dinamismo, anche quando l’immagine appare statica. Il suo stile è quello che più si avvicina alla mia visione: un’energia costante che si esprime attraverso il movimento, un’opera che, pur nella sua fissità, comunica azione e cambiamento.”
Questa varietà di culture e gestualità , che porta un polacco a esprimersi in modo diverso rispetto a un cinese o a un arabo, non è forse una forma di danza? Ascoltandoti, intravedo un linguaggio corporeo che diventa movimento. Tu cosa vedi, guardando il tuo lavoro da questa prospettiva?
“Ho scoperto cosa mi piace davvero,” risponde Simona, “solo dopo aver lasciato il mondo aziendale. I ritmi frenetici di quel contesto lasciano poco spazio per fermarsi a riflettere su ciò che realmente appassiona. Mi piace immaginarmi come una sorta di “orchestratore dell’impatto”: non qualcuno che agisce solo in prima persona, ma che ha il compito di armonizzare i diversi contributi affinché il risultato finale sia più grande della somma delle singole parti. E in questo, il tempo gioca un ruolo fondamentale. Avere il tempo per osservare una situazione, per chiedermi quali siano i contributi migliori da raccogliere, per individuare connessioni tra persone e temi che, a prima vista, sembrano non avere nulla in comune: ecco, tutto questo mi stimola e mi entusiasma. È la parte che più mi diverte. “
E dentro di te, cosa ha cambiato questo percorso? Intendo proprio nella tua persona, rispetto a quando hai iniziato…
“All’inizio ero completamente immersa nella mia passione per il marketing, mi vedevo come una top manager in grandi multinazionali, convinta che quello sarebbe stato il mio percorso per sempre. Non avrei mai immaginato di cambiare direzione in modo così radicale, né tanto meno di ritrovarmi a insegnare all’università, attività che oggi occupa una parte importante del mio tempo. Ancora meno avrei pensato di ispirare altri a sviluppare progetti con un impatto sociale o addirittura di fondare una onlus. Se guardo alla me di quindici anni fa, o forse anche solo di dieci, vedo una persona molto diversa, soprattutto nelle priorità. Oggi non riuscirei a tornare indietro a quel mondo, ma mi piace dialogare con esso, perché credo profondamente che le competenze acquisite in ambito aziendale possano essere messe al servizio della comunità. Ed è proprio questo, oggi, il valore per me più imprescindibile. Ho avuto la fortuna di incontrare persone straordinarie, come Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace, che ha scritto la prefazione del mio libro. Il libro è uscito nel 2023, ed è stato tradotto e distribuito in inglese nel 2024. Quando hai l’opportunità di confrontarti con figure così carismatiche, è inevitabile essere trasformati dal loro modo di pensare e di vedere il mondo. “
Quindi il mondo della scrittura ti è molto familiare, anche quello della poesia?
“Per me la scrittura è uno strumento per ispirare gli altri. Il mio libro è un manuale, una guida per costruire un progetto a impatto sociale. Parte dall’analisi del problema per poi sviluppare la vision, la mission e tutti gli step necessari affinché quel progetto possa concretizzarsi e diventare presentabile. La poesia, invece, è un mondo da cui mi sento un po’ distante. Ciò che amo della scrittura è la possibilità di dare forma a pensieri che altrimenti rimarrebbero sospesi, non scritti da nessuna parte. Questo è l’aspetto che mi affascina di più. “
Ti percepisco come una persona molto concreta… ma hai mai pensato a te stessa come a qualcuno con i piedi ben piantati sulle nuvole, come scriveva Ennio Flaiano? Una versione di te più sognante, quasi un’artista, guidata da quella sana follia che non segue la logica, ma l’immaginazione?
“La follia dell’artista? Sì, credo di averla, ma l’ho sempre canalizzata nella concretezza. Se chiedessi a chi mi conosce bene, ti direbbero la stessa cosa. Questa vena creativa c’è, ma, come dicevi tu, è sempre incanalata verso qualcosa di tangibile. Perché la creatività fine a sé stessa, almeno per me, non funziona: non è sostenibile nel lungo periodo.
Ora che me lo fai notare, mi rendo conto che portare la creatività nel mio lavoro quotidiano è davvero un privilegio. Insegnare all’università, collaborare con le istituzioni, gestire progetti concreti , sono ambiti spesso percepiti come rigidi, strutturati. Eppure, riuscire a trovare spazio per l’immaginazione in questi contesti è una fortuna. Mi permette di accendere scintille, coinvolgere altre persone e far sì che un’idea iniziale si trasformi in qualcosa di più grande.”
Se oggi incontrassi una giovane Simona di 18 anni, che consiglio le daresti?
“Le direi di liberarsi il prima possibile dalle aspettative degli altri. Le aspettative possono essere uno stimolo, certo, ma spesso diventano un peso. Quando coincidono con i tuoi desideri, tutto scorre facilmente. Ma se dentro di te sogni qualcosa di diverso? Allora è fondamentale capire davvero cosa vuoi, e avere il coraggio di inseguirlo. E le direi anche di non aspettarsi troppo dagli altri. Perché quando le aspettative verso il mondo esterno sono troppo alte, si rischia di restare delusi e soffrire inutilmente. Se potessi rivivere i miei 18 anni, cercherei di essere più libera. Più leggera. Forse anche meno concreta.”
E se potessi regalarle un’opera d’arte da portare con sé nel suo percorso?
“Sicuramente un quadro di Edward Hopper, ancora una volta. Perché Hopper ha la straordinaria capacità di cogliere i dettagli, e i dettagli fanno davvero la differenza. Il dettaglio è la passione con cui fai le cose. È il dettaglio che trasforma. È ciò che ti rende unico, capace di entrare in empatia con gli altri. Per me, il dettaglio è il tempo di qualità che dedichi alle persone, la cura che metti nei rapporti. Non è qualcosa di marginale, eppure oggi viene spesso trattato come tale. Mi piacerebbe riportare alla luce tutte quelle piccole cose che, col tempo, si sono un po’ perse, ma che continuano a giocare un ruolo fondamentale. Finché saremo in pochi a riconoscerne il valore, i dettagli continueranno a essere considerati secondari. “